Io non amo il ciclismo. Non nel senso che non ne sono appassionata: non mi interessa proprio.
Ho sempre trovato le telecronache dei vari “giri” (d'Italia, di Francia, di questo o di quello) di una noia mortale. Per fortuna in casa mia nessuno le ha mai guardate e se mi è capitato di
essere in casa di qualcuno che le guardava, mi sono affrettata a cambiare stanza.
Ieri leggevo “Cadrò, sognando di volare” su una panchina, al parco. Accanto a me, mio marito. Capitolo 3: “...il 5 giugno 1994…quando inizia la salita del Mortirolo e un ragazzino sconosciuto
sale sui pedali e parte. Davanti c'è un gruppetto di attaccanti, con dentro il suo capitano Claudio Chiappucci, soprannominato El Diablo. Il ragazzino invece un soprannome non ce l'ha, non si sa
nemmeno il suo nome vero: per meritarsi l'attenzione dei tifosi ci vuole qualche impresa sulle strade del grande ciclismo.” Continuo a leggere: il ragazzino improvvisamente scatta e attacca il
gruppo dei campioni in prima fila, li supera, li lascia lì, con un palmo di naso e io mi dimentico che stiamo parlando di ciclismo, anche se l'azione è descritta con minuzia di particolari e di
termini tecnici. Lo stupore stizzito dei campioni, l'incredulità del pubblico, il tifo nel bar La Gazzella, dove il protagonista sta seguendo col padre e gli appassionati del paese la tappa
trasmessa in tv, il racconto incalza e improvvisamente io sono lì, ad esultare con loro. Incredibile. Otto, nove pagine, e io non riesco a smettere di leggere. Finisco il capitolo. Roba da matti.
Mi volto verso mio marito, che invece di tanto in tanto il Giro d'Italia lo seguiva in tv, da ragazzo: “Senti questo”, gli dico, e comincio a leggergli il capitolo, a voce alta. Quanti minuti ci
metto? Cinque? Dieci? È la seconda volta che lo leggo, eppure lo rivivo con trepidazione anzi, mi gusto ancora meglio qualche passaggio: “questo ragazzino non lo conosce nessuno. Eppure in
qualche modo misterioso e magico lo riconoscono: i tifosi sul Santa Cristina come i milioni di persone nelle case, nei negozi, negli ospedali e nei bar. Ci abbiamo messo un po', ma per forza:
passiamo la vita aspettando un miracolo che non arriva mai. E se un giorno dopo tanta attesa il miracolo finalmente succede, è così impossibile, diverso dal resto, che lo prendiamo per un errore.
Ma è un attimo, poi lo capiamo. Che questo qui non è un ragazzino che ha osato attaccare i grandi, questo che vola davanti ai nostri occhi spalancati...è un nuovo, immenso, formidabile campione.
E così, nel tempo di una salita e di una discesa, è successo quello che tante volte non riesce in una carriera intera: il ragazzino spelacchiato è diventato Pantani”.
Ci guardiamo, io e mio marito. Cavolo. L'emozione è una bolla che circonda la panchina. “Accidenti, come scrive questo! Chi è?” fa mio marito. Gli faccio vedere la foto di Genovesi, sul risvolto
di copertina. Poi mi rimetto a leggere in silenzio. Capitolo 4. Un minuto, forse due, poi mio marito mi fa: “Guarda” e mi porge il cellulare.
Eccola, quella famosa salita del Mortirolo: rivedo il “ragazzino spelacchiato” che attacca il drappello in testa, l'emozione che incrina la voce del cronista mi fa vibrare qualcosa dentro, i
tifosi lungo la strada mi commuovono fin quasi alle lacrime. A me. Che di ciclismo non ho mai voluto sapere. Guardiamo due, tre servizi della stessa tappa, ascoltiamo le interviste dei compagni
di gara. Pantani è seduto con noi, su quella panchina. Io, che non ho mai voluto sapere di ciclismo, mi riprometto di andare a ricercare notizie sulla sua carriera, sulle accuse infamanti che la
oscurarono alla fine, sulla riabilitazione che mi pare di aver sentito che ci fu. Ma non ora. Perché questo libro racconterà ancora di Pantani e io voglio sentirla, questa storia, prima di tutto
dalla voce di Genovesi.
Ecco, questo è “Cadrò, sognando di volare”.
Cristina Quochi